Penso che Moby Dick sia una categoria dello spirito, un passaggio che segna tutti quelli che ci inciampano, perché scoprono di avere dentro un mondo immenso come quello di Herman Melville, lo “scopritore di Moby Dick”, non solo “l’autore di Moby Dick”. Da Giona a Pinocchio, fino a D’Arrigo o al più recente catalogo romanzato di Philip Hoare (Leviatano ovvero La balena, Einaudi 2013), un universo concentrato in pochi concetti.
Tanto fondamentale nella nostra crescita e formazione che con il mistero mistico della balena bianca si è cimentato più volte il cinema, non solo nelle riproduzioni del romanzo (memorabile quella con Gregory Peck nei panni di Achab, del 1956) ma anche della vita dello stesso Melville, come succede in The Heart of the sea (del 2015). In questo mare si è immerso anche Jean Giono che per 6 anni, dopo averne impiegati addirittura tre (dal 1936 al 1939) per tradurre in francese il capolavoro americano, è andato alla ricerca, condivisa con l’amico Lucien Jacques, della formazione dell’idea di Moby Dick nell’uomo e nello scrittore Melville. Moby Dick è l’ossessione del mostruoso e dell’immenso che ci perseguitano, è la consapevolezza dell’infinitesimamente piccolo di fronte all’enormità della vita e del fato, è qualcosa che va oltre la fede. E così Giono racconta di come, in quegli anni di letture e ricerche, abbia visto letteralmente materializzarsi l’ombra dell’enorme balena dietro gli alberi, di come abbia visto trasformarsi in enormi onde i prati della campagna che sconfinati partivano dalla sua finestra di fronte a lui ed arrivavano fino all’orizzonte più lontano. Quelle stesse onde che hanno condotto Melville: un’esperienza spirituale che accomuna due persone diverse nel tempo e nello spazio, ma così vicine nello spirito.
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